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COME CAMBIA LA CONTRATTAZIONE

di Tito Boeri e Pietro Garibaldi per www.lavoce.info

Il nuovo accordo quadro sulle regole della contrattazione comporta un conto salato per il resto dei contribuenti e per i lavoratori una copertura contro l’inflazione inferiore rispetto al vecchio modello. E non è affatto detto che, attraverso la sua applicazione, si sviluppi la contrattazione di secondo livello. Proponiamo qui una soluzione che ha il pregio di non confondere la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività. Perché sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi.

Da undici anni i lavoratori italiani aspettano una riforma delle regole della contrattazione. Lunedì 22 gennaio Confindustria, governo, Cisl, Ugl e Uil e un ampio numero di associazioni di categoria hanno raggiunto un accordo quadro. L’accordo non è stato firmato dalla Cgil, il che non ne faciliterà certo l’attuazione. Ma è nondimeno opportuno interrogarsi sui suoi contenuti per capire quali sarebbero i suoi effetti nel caso venisse messo in pratica.

TRE ASPETTI CRUCIALI

Preferiamo anticipare subito i tre principali rilievi cui ci porta lo studio dei contenuti dell’accordo. Primo, implica un conto salato per il resto dei contribuenti. Secondo, garantisce una copertura contro l’inflazione inferiore rispetto al vecchio modello. Terzo, non è affatto detto che, attraverso l’applicazione del nuovo modello, la contrattazione di secondo livello prenderà piede. Per facilitare tale obiettivo, proponiamo un’alternativa che ha il pregio di non confondere la copertura contro l’inflazione con la ricerca di un legame più stretto fra salario e produttività.

IL CONTO SALATO DEGLI INCENTIVI FISCALI

Il piatto forte dell’accordo dovrebbe consistere, secondo i firmatari, nell’aumento della contrattazione aziendale, dove gli aumenti di produttività sono generati, invertendo la tendenza in atto al suo declino. Lo sviluppo della contrattazione aziendale dovrebbe essere stimolato dagli incentivi fiscali, destinati a diventare permanenti, e dall’abbassamento della quota di salario determinata dalla contrattazione centralizzata. Vediamo come questi effetti dovrebbero operare, prima di interrogarci sulla loro efficacia nello stimolare la contrattazione integrativa.
Gli incentivi fiscali applicano una cedolare secca del 10 per cento agli incrementi salariali decisi dalla contrattazione di secondo livello. Il vantaggio fiscale è importante ed è quindi probabile che una componente crescente del salario venga spostata, anche solo in modo fittizio, al regime più vantaggioso per il datore di lavoro e il dipendente. Nessuno, neanche il governo presente al tavolo negoziale, sembra essersi posto il problema di chi finanzierà queste minori entrate. Anche ipotizzando che non ci sia elusione fiscale, la riduzione delle entrate potrebbe essere consistente. Se prendiamo per buoni i calcoli del Centro studi Confindustria, nel 2012 il vantaggio fiscale per dipendente sarà di circa 250 euro. Moltiplicato per il numero di lavoratori dipendenti, implica una riduzione delle entrate di quasi 4 miliardi di euro, quasi un terzo di punto di Pil; con lo stesso costo si sarebbe potuto estendere il sussidio di disoccupazione a tutti i lavoratori precari o finanziare quasi interamente un reddito minimo garantito. Importante notare che i vantaggi fiscali sarebbero concentrati nelle aziende dove si svolge la contrattazione integrativa, oggi le grandi imprese con forte presenza del sindacato.

COPERTURA INFERIORE CONTRO L’INFLAZIONE DEL CONTRATTO NAZIONALE

Nel nuovo modello, il contratto nazionale dovrebbe limitarsi alla copertura contro l’inflazione, misurando quest’ultima attraverso l’indice dei prezzi armonizzato a livello europeo (Ipca), depurato dall’andamento dei prezzi energetici. Anche in passato il contratto nazionale garantiva copertura contro l’inflazione utilizzando l’indice dei prezzi al consumo (Ipc) italiano. Quando si parla di copertura da inflazione bisogna differenziare tra copertura ex-ante, al momento del contratto, e copertura ex-post, ottenuta attraverso i conguagli, e il divario tra l’incremento dei salari garantito ex-ante e quello riscontrato alla scadenza dei contratti. La copertura ex ante si è rivelata in effetti in molti casi insufficiente, richiedendo conguagli ex-post, il che significa anche che contratti che durano più a lungo, e l’accordo li allunga da due a tre anni, rischiano di comportare, a parità di altre condizioni, una minore copertura.
Il nuovo modello contrattuale garantirà una copertura inferiore a quella offerta in passato. Il motivo non sta tanto nel cambiamento dell’indice dei prezzi, quanto piuttosto nel fatto che il nuovo accordo prevede l’abbassamento della quota di salario base su cui calcolare la copertura di inflazione. Per comprendere questo effetto occorre distinguere tra retribuzioni contrattuali e retribuzioni di fatto. Le prime corrispondono al livello di retribuzioni medie deciso nel contratto nazionale e sono fornite dall’Istat. Le seconde corrispondono alle retribuzioni percepite dal lavoratore medio, e sono più alte poiché includono straordinari, contratti integrativi e eventuali superminimi aziendali. Sia i dati di contabilità nazionale che i salari medi lordi ottenuti dai dati Inps messi a disposizione dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, pongono le retribuzioni contrattuali a circa l’85 per cento delle retribuzioni di fatto.
Negli anni passati la copertura contro l’inflazione prendendo come riferimento l’andamento dell’indice dei prezzi al consumo (Ipc) è stata applicata a questa quota dell’85 per cento. L’accordo del 22 gennaio prevede che la quota di salario coperta sia oggetto di “specifiche intese”, con una riduzione che dovrebbe essere mediamente di 5 punti base. In entrambi i casi la copertura verrebbe garantita in buona parte ex-post. Nelle simulazioni qui sotto abbiamo, comunque, ipotizzato che la copertura avvenga senza ritardi, anno per anno. Abbiamo inoltre ipotizzato che la quota di salario coperta con le nuove regole scenda dall’85 per cento all’80 per cento. La tabella mostra che dal 2001 al 2007 la copertura contro l’inflazione utilizzando il vecchio metodo avrebbe garantito circa 250 euro in più

UNA PROPOSTA ALTERNATIVA

A nostro giudizio la vera ragione per cui non è mai decollata la contrattazione di secondo livello in Italia non è perché il salario nazionale fosse troppo alto, ma perché la contrattazione di secondo livello poteva solo aggiungere al contratto nazionale, il che dissuadeva qualsiasi datore di lavoro dal farla. Solo nelle imprese (sempre meno) in cui c’è una forte presenza del sindacato, si è così svolta la contrattazione decentrata. Non è perciò evidente che abbassando il livello nazionale, aumenti davvero la contrattazione di secondo livello.
Un modo più efficace e più trasparente per incoraggiare la contrattazione decentrata sarebbe quello di coprire ex-ante tutto il salario (anziché solo una quota di questo) dall’inflazione programmata dalla Bce (2 per cento all’anno). Come si vede dalla tabella, questa regola è quella che fornisce maggiore copertura contro l’inflazione. Da notare che interverrebbe senza i ritardi degli altri metodi. Poi si dovrebbe lasciare che una quota del salario sia messa in rapporto con le variazioni della produttività in base a regole decise a livello nazionale per le imprese in cui non si fa contrattazione o azienda per azienda. Copertura dall’inflazione e legame fra salario e produttività sono due problemi diversi che vanno affrontati con strumenti diversi. La regola che lega il salario all’andamento della produttività aziendale, verrebbe applicata ex-post alle imprese in cui, durante il periodo coperto dal contratto nazionale, non sia stato possibile sottoscrivere un contratto di secondo livello. Ad esempio nelle imprese industriali, la regola potrebbe consistere nell’aumentare i salari in proporzione al 50 per cento dell’incremento del reddito lordo operativo pro-capite, al netto dell’inflazione. Ovviamente l’aumento varierà da impresa a impresa e finirà per premiare i lavoratori in virtù degli incrementi di produttività aziendale. Dove invece si svolge la contrattazione aziendale, questa deve contemplare premi di produttività, con regole definite azienda per azienda, che potranno essere sia positivi che negativi.


LA CRISI AMERICANA RISPARMIA LE DONNE?

Gli ultimi dati del mercato del lavoro statunitense mostrano che più dell’80 delle perdite di posti di lavoro hanno riguardato gli uomini. Gli uomini infatti sono  prevalentemente occupati in settori più colpiti dalla crisi (manifattura, costruzioni, auto),  mentre le donne sono impiegate prevalentemente nei servizi e quindi meno sensibili ai boom e alle recessioni. In recessione il numero di famiglie in cui il principale procacciatore di reddito è una donna è destinato a salire. Secondo le stime dell’economista Casey Mulligan la percentuale di donne nella forza lavoro è aumentata di cinque punti percentuali anche nelle due precedenti recessioni (1990-1991 e 2001) incrementi superiori a quanto avvenuti negli anni tra le recessioni. Se si proiettano simili incrementi per i mesi futuri, le donne, che sono oggi il 49,1 della forza lavoro secondo i dati BLS (Bureau of Labor Statistics), diventeranno piu del 50 per cento della forza lavoro sorpassando per la prima volta la proporzione maschile. Tuttavia questo possibile traguardo storico può implicare famiglie più fragili e povere. Va ricordato che gli alti tassi di occupazione delle donne in USA riguardano in gran parte lavori part time, spesso non coperti da copertura previdenziale e i cui guadagni medi sono comunque inferiori a quelli maschili anche a parità di orario (circa l’80% ). Inoltre a meno che i padri decidano di cambiare radicalmente il loro comportamento nella divisione dei ruoli familiari e sostituirsi in gran parte al lavoro delle donne in casa, le difficoltà saranno insormontabili in un welfare state che offre ben poco aiuto alle donne che lavorano e che hanno lavori di cura.

Daniela Del Boca per www.lavoce.info


PREZZI E SALARI AL TEMPO DELLA CRISI

 

di Francesco Daveri per LA VOCE.INFO

I salari nel 2008 sono aumentati di un punto e mezzo più dei prezzi. Un effetto temporaneo, ma non solo. Un problema che potrebbe diventare più drammatico nei prossimi mesi, con il rischio di un peggioramento delle relazioni industriali. Se il governo ha risorse fiscali aggiuntive, è qui che bisognerebbe metterle: per difendere il potere d’acquisto dei lavoratori e delle loro famiglie, senza pregiudicare la competitività delle imprese.

I dati Istat dicono che i salari (in euro) nel corso dell’anno 2008 (calcolando l’aumento da dicembre 2008 rispetto al dicembre 2007) sono aumentati quasi del 4 per cento (+3,8 per cento, per la precisione), una crescita molto maggiore rispetto a quella dei prezzi al consumo che sono aumentati solo del 2,2 per cento nello stesso periodo di tempo, e di sei volte più grande della crescita dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali, che sono saliti dello 0,6 per cento. Vuol dire che il potere d’acquisto di un lavoratore medio (cioè il salario di operai e impiegati al netto dell’inflazione al consumo) è cresciuto dell’1,6 per cento nel 2008. Nello stesso periodo di tempo, la componente salariale del costo del lavoro per le imprese è cresciuta del 3,2 per cento: il +3,8 per cento dei salari è stato scaricato solo molto parzialmente sui prezzi di vendita, aumentati appunto solo dello 0,6 per cento nel 2008).
Quindi i lavoratori stanno meglio rispetto a dodici mesi fa, mentre le imprese stanno peggio, nel senso che pagano di più in termini reali per i servizi del lavoro. Per questo il Corriere della Sera ha titolato allarmato: “Aumento record dei salari nel 2008, mentre la dinamica dell’inflazione è rallentata a poco più del 2 per cento”.

INSOMMA: PIÙ RICCHI O PIÙ POVERI?

C’è però un problema. Come mai i dati dell’Istat ci dicono che le cose vanno meglio, mentre, nella società italiana, esiste una diffusa percezione di impoverimento, notoriamente riassunta nella frase “molte famiglie fanno fatica ad arrivare alla quarta settimana”?
Prima di tutto, va ricordato che qualche volta la media non descrive bene quello che succede alla maggioranza dei lavoratori nell’economia. I salari sono aumentati molto nel dicembre 2008 rispetto al dicembre 2007, e in particolare in dicembre rispetto al mese di novembre 2008, perché nel mese di dicembre si sono concentrati gli effetti dell’applicazione dei rinnovi contrattuali per più di 3 milioni di lavoratori: quelli del commercio, del credito, dei dipendenti delle amministrazioni centrali del pubblico impiego e della scuola. Si è trattato di un misto di aumenti veri e propri, arretrati e indennità varie; aumenti che devono essere spalmati sull’intero periodo di validità dei rinnovi per valutarne l’impatto di più lungo periodo.
Se si guarda a cosa è successo alle retribuzioni reali negli anni successivi all’adozione dell’euro, si ottiene un quadro più equilibrato e anche, per certi versi, differente dall’opinione più diffusa. I dati dicono che, tra il dicembre 2001 e il dicembre 2008, le retribuzione contrattuali per lavoratore (i “salari”) sono complessivamente aumentate del 21,4 per cento, mentre i prezzi al consumo sono aumentati “solo” del 17,2 per cento e quelli alla produzione del 23,7 per cento. Quindi sulla base dei salari reali al netto dell’inflazione, cioè prima di considerare le tasse e i trasferimenti statali e prima di considerare la spesa per i mutui, le famiglie italiane non avrebbero ragione di lamentarsi. Soprattutto non avrebbero da lamentarsi con il settore della distribuzione che sembra anzi aver in qualche modo calmierato gli aumenti dei prezzi dei prodotti industriali. Così dice l’Istat.
Si deve quindi concludere che la percezione di impoverimento deriva da ciò che succede fuori dalle relazioni industriali e fuori dai negozi e dai supermercati, cioè nel momento in cui compiliamo la dichiarazione dei redditi e in quello in cui andiamo in banca a pagare la rata mensile del mutuo.Èevidentemente l’aumento delle tasse e dei mutui che ci fa sentire più poveri tutti i mesi, non l’ingordigia dei distributori.

SALARI E PREZZI NEI PROSSIMI MESI

L’aumento dei salari di dicembre è poi in stridente contrasto con il raffreddarsi dell’inflazione conseguente ai venti di deflazione che stanno soffiando sulle economie, in particolare su quella americana e quella inglese, dal mese di agosto a oggi soprattutto a causa della riduzione dei prezzi delle materie prime e dei prezzi dei servizi immobiliari. Come riporta l’Istat, da agosto a dicembre, l’indice generale dei prezzi al consumo è diminuito complessivamente dello 0,8 per cento (da 138.0 a 136.9), mentre quello dei prezzi alla produzione è sceso anche più nettamente, addirittura del 5,1 per cento, da 131.5 a 124.8. Come già osservato in passato, l’inflazione su base annua è ancora positiva a causa della rapida crescita dei prezzi, sia al consumo che alla produzione, nella prima metà dell’anno, fino a luglio incluso. Ma, se le cose vanno avanti così e la recessione entra nel vivo, la riduzione dei prezzi riguarderà un paniere più ampio di beni: riguarda già ora il 44 per cento delle nove categorie censite dall’Istat; non è quindi solo un fenomeno relativo a poche voci legate al petrolio, come la benzina, e alle materie prime. Il rischio a cui si va incontro nei prossimi mesi è quello di un peggioramento delle relazioni industriali. Da un lato le imprese, sempre più pressate dall’azzeramento dei margini sul mercato dei beni, si troveranno nella condizione di dover negoziare aumenti salariali più contenuti per mantenere la loro competitività. Ma ciò potrebbe avvenire nel momento più sbagliato, cioè quando ci sarebbe bisogno invece di mantenere il potere di acquisto dei salari per sostenere i consumi.
Ecco dunque il rebus da risolvere per il governo nei prossimi mesi. Come si fa a tenere su i consumi senza ridurre la competitività aziendale? Un modo forse c’è. Il governo dovrebbe ridurre le tasse sul lavoro e in particolare i contributi sociali. Ma, realisticamente, si possono ridurre i contributi sociali solo intervenendo sul sistema pensionistico, cioè allungando l’età pensionabile in linea con i trend demografici. Molto difficile da farsi. Ma se non ci prova un governo che ha consensi così maggioritari nel paese e una maggioranza così solida in Parlamento, chi mai potrà più provarci in futuro?


DOV’È LA VERA PARITÀ TRA DONNE E UOMINI?

di Chiara Saraceno 07.01.2009

Un’età della pensione più bassa penalizza le donne, ha sentenziato la Corte Europea. Ma eliminare questa disparità non basta. Bisognerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini e pagano prezzi economici elevati. Su questo occorre intervenire.

E’ vero che, come ha sostenuto la Corte Europea nel condannare l’Italia, una età della pensione più bassa penalizza le donne, date le loro carriere mediamente più corte e remunerazioni più basse rispetto agli uomini. Limitarsi a equiparare le età alla pensione di donne e uomini per consentire alle prime di recuperare almeno in parte il gap contributivo con i loro colleghi maschi, come propone il ministro Brunetta, senza modificare contestualmente le condizioni che ne sono all’origine, rischia tuttavia di aggiungere ingiustizia a ingiustizia, disuguaglianza a disuguaglianza.

IL LAVORO IN FAMIGLIA

Le donne, infatti, svolgono la stragrande maggioranza del lavoro domestico e di cura necessario per far funzionare una famiglia e per consentire agli stessi lavoratori di presentarsi ogni giorno al lavoro (remunerato). Viceversa gli uomini sono molto più presenti nel lavoro remunerato (e quindi coperto da contributi a fini pensionistici).E’ una differenza visibile in tutte le età e condizioni famigliari, come mostra l’indagine ISTAT 2002 sull’uso del tempo (1). Soltanto tra chi vive solo si attenua, mentre viceversa si accentua tra chi vive in coppia ed ha figli. In particolare, le donne occupate che vivono in coppia con figli  lavorano per il mercato in media due ore in meno degli uomini in analoga condizione famigliare. Ma se al lavoro per il mercato si somma il lavoro domestico e di cura svolto per la famiglia (inclusi i mariti), il gap si rovescia: le donne hanno una giornata lavorativa media più lunga di un’ora e quaranta minuti. Quindi le donne occupate con carichi famigliari lavorano complessivamente in media molto più degli uomini occupati, ma guadagnano di meno ed accumulano una ricchezza pensionistica inferiore, anche se ne possono fruire mediamente per un periodo più lungo.
Si aggiunga che anche a motivo di queste loro responsabilità famigliari – effettive o anche solo presunte – le donne non solo sono meno presenti nel mercato del lavoro, ma sono più esposte alla disoccupazione e sono più concentrate degli uomini nei rapporti di lavoro a termine. Infine,  molto spesso quando si ritirano dal mercato del lavoro le donne continuano a fornire più o meno intensamente lavoro di cura non solo ai mariti, ma ai nipoti e ai genitori e suoceri resi dipendenti dalla età molto avanzata, in una società come la nostra in cui mancano i servizi sia per la primissima infanzia che per la dipendenza in età anziana. Da strumento di conciliazione tra lavoro remunerato e famiglia per i loro mariti, andando in pensione (e talvolta anche prima)  le donne si trasformano in strumento di conciliazione per le loro figlie e nuore, oltre che in prestatrici di cura per chi nella rete famigliare non è del tutto autosufficiente.

IN PENSIONE A CHE ETÀ?

Ma la soluzione non è  il mantenimento di una diversa età pensionabile. Non basta  tuttavia neppure, anche se è auspicabile, reintrodurre la flessibilità – per donne e uomini –nella età di uscita dal mercato del lavoro così come era previsto dalla riforma Dini, per consentire a ciascuno di scegliere il trade off che preferisce, o che è più adeguato alle sue necessità, tra uso del tempo e livello della pensione. Occorre soprattutto incidere sulle condizioni che, appunto, producono il gap reddituale e contributivo tra donne e uomini. In primo luogo occorre lavorare seriamente per eliminare le discriminazioni di genere che ancora esistono nel mercato del lavoro ad ogni livello – dall’accesso, alle forme contrattuali, alle possibilità di carriera. In secondo luogo vanno rafforzate le politiche di conciliazione, per donne e uomini: servizi di cura per la prima infanzia e per le persone non autosufficienti, tempi scolastici che tengano conto del fatto che oramai nella maggioranza delle famiglie entrambi i genitori – o l’unico genitore presente – sono occupati. Da questo punto di vista, la riforma Gelmini che riporta l’orario nella scuola elementare privilegiato a 24 ore è una vera e propria mossa in contrasto con questo obiettivo (si veda anche questo altro intervento).

CONTRIBUTI FIGURATIVI

Infine occorre un riconoscimento economico del lavoro di cura, sia sotto forma di congedi coperti da indennità decenti che sotto forma di contributi figurativi più sostanziosi di quelli attualmente vigenti.  Al momento attuale solo il congedo di maternità è coperto da contributi figurativi calcolati sulla retribuzione effettiva (e solo per chi ha un lavoro regolare). Il congedo genitoriale, oltre ad essere compensato in maniera poco più che simbolica (30% dello stipendio e solo se preso entro i tre anni di vita del bambini), dà luogo a contributi figurativi ridotti, ancorché riscattabili o integrabili con versamenti volontari, e per un massimo di sei mesi e solo per le lavoratrici dipendenti che abbiano almeno 5 anni di storia contributiva. Si tenga presente che nel caso di contributi per il periodo del servizio militare (o civile alternativo a quello militare) basta aver avuto anche un solo contributo nel periodo precedente il servizio (2). E’ anche per questo – bassa remunerazione e scarsi o nulli contributi figurativi – che i padri raramente prendono il congedo genitoriale, allargando di fatto il divario con le loro compagne. Allo stesso tempo si ingenerano condizioni di disuguaglianza tra diverse figure di lavoratrici madri e tra queste e le madri fuori dal mercato del lavoro.
Ancor meno è riconosciuto il lavoro di cura prestato per persone non autosufficienti. Solo nel caso di un figlio non autosufficiente si ha diritto ad un congedo fino ad un massimo di due anni, non remunerato ma coperto da contributi figurativi di importo fisso. Nel caso, molto più frequente, di assistenza ad anziani non autosufficienti, i contributi figurativi coprono al massimo i 25 giorni annuali di permesso consentito, e solo se la persona non autosufficiente convive con la lavoratrice/lavoratore. 
Invece che “compensare” le donne per il loro lavoro non pagato con una vita lavorativa remunerata più corta, ma anche con una ricchezza pensionistica più ridotta, occorrerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno in effetti una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini, con periodi di concentrazione spesso insostenibili e per cui pagano prezzi economici elevati. E’ su questo che occorre intervenire, destinando a misure sia di sostituzione (tramite i servizi) che di  riconoscimento (tramite congedi remunerati e contributi figurativi) del lavoro di cura i risparmi ottenuti con l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne. Ciò consentirebbe anche di non distinguere genericamente tra “donne” e “uomini”, ma tra chi – donna o uomo – fa attività di cura per persone non autosufficienti per età o malattia e chi no.

(1) L’indagine Istat 2002.
(2) Sulla complessa normativa riguardante i contributi figurativi si veda Tuttoinps.

Per gentile concessione di Lavoce.info